Quando si parla di Giappone e dei suoi dolci, vengono subito in mente i mochi 餅 (le palline di riso glutammoso farcite con anko あんこ, la tipica marmellata di fagioli rossi, o gelato a vari gusti) o i dorayaki どら焼き (il pan di spagna giapponese farcito sempre con anko) perché siamo abituati mangiarli al ristorante. Si tratta di dolci giapponesi tipici e unici nel loro genere, che fanno parte della grande famiglia dei wagashi, letteralmente “dolce giapponese”, che però non esaurisce l’universo dolciario del Sol Levante. Il termine wagashi venne, infatti, creato soltanto durante il periodo Meiji (1868-1912), quando il Giappone si aprì di nuovo al mondo dopo i duecento anno di chiusura, ed entrò in contatto con alcune tradizioni occidentali, compresa quella gastronomica. In quel periodo nacque la necessità di distinguere i dolci tipici giapponesi, wagashi, da quelli arrivati invece dall’Occidente, che vennero invece chiamati yōgashi ようがし, letteralmente dolci occidentali.
I dolci tradizionali giapponesi sono a base di acqua, zucchero, riso glutinoso e fagioli azuki e non contemplano invece latte, burro, panna, uova e farina di frumento e lievito. Inoltre, non necessitano di forno né di lunghe cotture e raramente utilizzano stampi, se non per alcune tipologie tipiche, perché per la maggior parte vengono formati a mano, con l’orgoglio di ogni pasticcere nel caratterizzare con il proprio stile le impercettibili differenze dei dettagli.
Abbiamo recentemente letto un interessante articolo su NSS MAGAZINE, che ci fa piacere condividere. Secondo l'autorevole Magazine:
"Se la Corea del Sud ha meritato i riflettori del lusso nell'ultimo anno - con grandi marchi come Louis Vuitton, Gucci e Dior che hanno allestito sfilate nella Capitale e vendite record tra la clientela locale - il Giappone ha mantenuto la sua forza in un contesto di rallentamento dell'economia statunitense e di difficile ripresa post-Covid in Cina. In cima alla lista delle destinazioni internazionali preferite, secondo i dati della società di consulenza McKinsey riportati da Vogue Business, il mercato giapponese del lusso è solido e dovrebbe crescere di circa il 4% fino al 2025 sotto la spinta dei consumatori nazionali. Testimoni brand come Burberry, Prada e Richemont, che hanno registrato una forte accelerazione nel Paese nell'ultimo trimestre e vendite in crescita per l'intero anno fiscale 2022, oltre a marchi come Marni e Chanel che proprio sulle performance nipponiche stanno basando le loro strategie a lungo termine. Dati che confermano la ripresa in grande stile di un continente provato dal lockdown ma che sottolineano anche la necessità di un approccio differente sul territorio, soprattutto in termini di customer care e sul territorio giapponese.
Il Giappone è difatti diverso dagli altri Paesi dell'APAC: in una società tradizionale, in cui i dirigenti si scambiano ancora biglietti da visita, usano fax e pagano in contanti, oltre l'80% dei consumatori di lusso in Giappone afferma che l'offline è una parte fondamentale del loro percorso di acquisto, con il 36% che fa acquisti esclusivamente offline. Secondo McKinsey, i consumatori giapponesi citano le "maniere gentili", la "buona conoscenza dei prodotti" e la "facilità nel reperire gli articoli" come requisiti fondamentali nell'esperienza di shopping. Con il più alto tasso di popolazione anziana al mondo, molti degli acquirenti di lusso locali si aspettano dunque il massimo della cura nel servizio. Anche l'ospitalità può migliorare l'esperienza offline e i brand lo sanno bene, tanto che i locali brandizzati sul territorio nazionale sono in aumento: nella boutique di Chanel a Ginza si trova Beige, ristorante da due stelle Michelin dello chef monegasco di origine francese Alain Ducasse, mentre a Tokyo la scelta è ampia, dall'Osteria da Massimo Bottura di Gucci al Risorante Luca Fantin di Bulgari, passando per Café Dior di Ladurée e Le Café V di Louis Vuitton. Anche se in Giappone l'esperienza fisica fa da padrona, i marchi possono comunque utilizzare le piattaforme online per entrare in contatto con i consumatori locali, come nel caso di Chanel, Gucci, Valentino e Prada che hanno deciso di aprire account ufficiali su app di messaggistica locali come Line. Chanel in particolare, che conta già 33 negozi in tutto il Giappone, sta approfondendo la propria fama nipponica. Al defilé della collezione Métiers d'Art 2023 a Tokyo, gli ospiti hanno assistito a uno spettacolo di danza seguita una performance musicale dell'artista senegalese Nix e del chitarrista giapponese Ichika Nito, mentre una masterclass organizzata dal marchio con Tyler Brûlé, presidente e caporedattore di Monocle, è stata resa disponibile per 350 studenti delle principali scuole di moda, arte, design e management. La sfilata secondo il dirigente del brand Bruno Pavlovsky è stata "un modo per celebrare la creatività, non solo nella moda, ma anche nella musica e nella danza" e per quanto riguarda la decisione di riproporre a Tokyo la collezione presentata per la prima volta a Dakar lo scorso dicembre, Pavlovsky ha spiegato che il marchio ha ritenuto che i capi fossero in linea con lo stile "elegante" dei consumatori giapponesi e che c'era il desiderio di stabilire un contatto a livello locale in Asia dopo anni di chiusure.
Il Giappone rappresenta il 23% delle vendite totali anche per Marni. Il marchio di lusso italiano ha aperto il suo primo negozio in Giappone nel 2000 e attualmente conta 25 store sparsi sul territorio (su 96 in tutto a livello globale), tra cui tre outlet e una nuova apertura in arrivo. Secondo l'amministratrice delegata Barbara Calò, l'azienda ha in programma di riqualificare alcuni dei suoi punti vendita esistenti nel Paese, puntando anche sui pop-up per attingere ai consumatori offline. Ecco perché Marni ha ritenuto utile organizzare proprio a Tokyo una sfilata da 2000 invitati lo scorso febbraio, la seconda dopo New York delle quattro passerelle itineranti del marchio di proprietà di OTB, in modo da "avvicinare la visione globale di Marni ai clienti e alla comunità in continua crescita che sostiene e apprezza i nostri prodotti, codici e valori culturali". Perché, sebbene la Corea del Sud per il mercato del lusso sia la nuova terra promessa, il Giappone resta un porto sicuro.
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